LA GIOSTRA
Quando raggiunsi la piazzetta, trafelato, sentivo le gocce di sudore
scivolarmi sotto la camicia come frotte di vermetti
gelati. La folla assembrata davanti al palo si dischiuse al mio arrivo,
ed un gran numero di volti sorridenti mi accolse sfoderando schiere di
denti bianchissimi che il sole di luglio rendeva quasi abbaglianti.
Il
buon Milos – che tenendomi per un polso
mi aveva trascinato lungo stradine strette ed affollate, costringendomi a
serpeggiare in mezzo a gente radunata ovunque a piccoli gruppi, tra bancarelle
cariche di dolciumi, libri e cianfrusaglie d’ogni sorta – mi annunciò nel suo italiano faticoso: “Eccoci allora qui, bene, sì!”
Subito,
rivolto alla folla, incominciò a spiegare chissà cosa, gesticolando con
la tipica animosità mediterranea. Milos era la
guida che l’azienda di soggiorno mi aveva messo a disposizione durante
la mia breve (e di certo ultima) vacanza in Grecia; e dopo avermi fatto
visitare in lungo e in largo l’isoletta di Mirnòs
aveva deciso che quel pomeriggio avrei dovuto assolutamente rendermi protagonista
di quel gioco. Nel villaggio di Kresos, la
Sagra di San Callisto è un momento di forte aggregazione,
estremamente sentita dalla gente. Avevo accondisceso di buon grado,
nonostante io ami ben poco esibirmi di fronte ad
un pubblico; mi pareva comunque che sarebbe stato sconveniente
contrariare Milos per così poco, per cui mi
ritrovai ad ansimare sotto un sole cocente, in attesa di scoprire cosa ci
si aspettava da me.
“Deve
essere un forestiero a farlo!” mi stava spiegando la mia briosa
guida. “È tradizione, tu capisci?”
Sicuro,
capivo, gli avevo risposto...
Il
palo al centro della piazzetta era alto poco più di cinque metri. Su di
un perno, in cima, stava infilata un’ampia ruota di metallo, e dai
punti in cui i sei raggi si fondevano con la circonferenza penzolavano da
funi altrettanti sacchi rigonfi sui quali erano scritte
parole storte, per me incomprensibili.
Guardavo
all’insù, boccheggiando per il gran caldo, cercando di ripararmi
gli occhi con le mani per via del sole. La ruota girava, lenta, azionata da un ragazzotto
sorridente che dal balcone di una palazzina si sporgeva, aiutandosi con
un paletto biforcuto. I sacchi oscillavano, ruotando, a circa tre metri
da terra, appesi a quella sorta di rozza giostra.
La
gente pareva liquefarsi in un amalgama vociante e variopinto, e torrenti
di discorsi misteriosi mi fluivano attorno infondendomi un fastidioso
senso di capogiro. Ma naturalmente, non potevo
più tirarmi indietro.
“Tieni,
tieni questo!” stava intanto starnazzando Milos, e così mi trovai fra le mani un bastone, un
randello, alla cui estremità era conficcato un grosso chiodo che
fuoriusciva con la punta, lateralmente, per una ventina di centimetri
buoni.
“Tu
devi colpire un sacco! Con il chiodo, forte! E
il padrone del sacco vince soldi: un milione di dracme! Tu fai felice un
poveretto, sai?”
Mentre soppesavo il bastone, cercando di capire, qualcuno alle mie
spalle mi bendò con un fazzoletto rosso. Sorrisi,
sentendomi un po’ il buffone di corte, desiderando fortemente raggiungere
la frescura della camera d’albergo. Era giunto il momento
che io facessi ciò che tutti quanti si aspettavano
da me. Bene: non li avrei delusi. Seguirono alcuni secondi durante i
quali ascoltai il fluire inquieto del mio sangue
alle tempie. Un brusio diffuso veleggiava ovunque attorno a me, mentre
dall’alto calava il regolare cigolio della giostra. Sollevai il
bastone...
Sbagliai
due volte, lacerando con goffi fendenti l’aria quasi bollente.
Sommessi vocalizzi di disapprovazione serpeggiarono a sottolineare
i miei insuccessi. Ma il terzo colpo andò a
segno. Sentii distintamente il rumore del chiodo strappare la iuta e
affondare. E siccome la giostra continuava a girare,
il sacco perforato riuscì a strapparmi il bastone dalle mani sudate.
Subito, dalla folla si levarono grida, applausi, esclamazioni sguaiate.
Finalmente
qualcuno, presumo Milos, mi tolse la benda. Il
sole tornò immediatamente a mordermi gli occhi, che già si erano
assuefatti al torpore scarlatto del tessuto.
“Vince
la famiglia Petrimarkos!” berciò la mia
guida. “Vieni, vieni, Jorghe,
a ringraziare lui!”
Non
mi sentivo affatto bene. Il calore soffocante, le grida, la musica... Mi stavo stropicciando le palpebre quando un tizio
corpulento venne a stringermi la mano, sibilando accorati ringraziamenti
– suppongo – attraverso la dentatura devastata. Accanto a
lui, una donna mi sorrideva, con gli occhi arrossati e lucidi.
Allora
guardai nuovamente in direzione della giostra. Là, il ragazzo sul balcone
stava distaccando i sacchi illesi dalla ruota, facendoli cadere fra le
braccia attente degli uomini radunati sotto.
“Bene,
bene, hai fatto felice una famiglia!” mi stava dicendo Milos. Io rimasi a fissare gli uomini intenti a
slegare i sacchi. “Famiglie troppo numerose, e pochi soldi, tu capisci? Hai risolto un grosso problema di Jorghe! Per gli altri, sarà meglio il prossimo anno!”
Il
primo sacco venne aperto, e io barcollai.
Il
sole era implacabile. Mi parve di sentirne i raggi dentro la testa
cuocermi il cervello. Dal sacco, un uomo e una donna estrassero un
ragazzino rannicchiato, impaurito, e cominciarono a trafficare per
slegargli mani e piedi e per liberarlo dal fazzoletto stretto sulla
bocca. La donna prese subito a baciarlo, singhiozzando. La stessa scena,
intanto si stava ripetendo poco più in là, e ancora, e ancora, ad ogni
sacco che veniva aperto. Dovetti compiere uno
sforzo infinito per tornare a guardare verso l’alto, e quindi mi
accasciai sul selciato, abbandonato di colpo da ogni energia.
L’ultimo sacco era rimasto a dondolare
lassù, contro il sole, nell’aria torrida.
Conficcato nella tela, anche il bastone
chiodato continuava ad oscillare, avanti, indietro, rigato da ruscelletti rossi che andavano dipingendo forme
oscure ai piedi della giostra.
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