L’ULTIMA SERA
DI OTTOBRE
Era
atroce, e al tempo stesso sublime, ammirare l’infernale paradiso
inscenato dall’autunno al di là del vetro
un po’ sporco. Martino fissava, immobile, nel silenzio senza fine
che stagnava nella sua stanza, seduto davanti alla finestra. E pensava. In fondo non gli restava altro, da fare, e
pensare gli procurava un misto di angoscia ed
esaltazione.
Le
foglie secche frustate dal vento planavano come grigi pipistrelli
ubriachi, cozzando le une contro le altre nell’imboccare improvvisi
mulinelli d’aria. Il cielo era di un meraviglioso color cenere,
verso ovest, una cenere sotto la quale andava morendo una brace sanguigna
e tremolante. Spostando lo sguardo verso est, gradualmente, si poteva
contemplare invece l’ineluttabile, strisciante avanzare della
notte, pronta già ad inghiottire il mondo. Le luci accese, nelle case, erano minuscoli rettangoli intrisi di una serenità
struggente, brillanti focolai di redenzione, di pace, di calore...
Martino
aveva solo la candela, con la sua fiammella malata che saettava e si
dimenava, scossa da convulsioni ardenti. Per il resto, la casa era preda
dell’ombra, come sempre. L’ombra che impregnava
le pareti, che si respirava, che stringeva il cuore. L’ombra
di sua madre, persa in qualche stanza. L’ombra della sedia a
rotelle, dalla quale Martino non si sarebbe alzato più.
Fuori,
intanto, i primi fantasmi presero a sfrecciare, in lontananza, come
usciti da un sogno ad occhi aperti. E
c’erano anche scheletri, streghe, smunti cadaveri ambulanti dalle
braccia tese ed il passo incerto. A piccoli gruppi, comparivano e
sparivano fra viuzze e cortili, e di quando in quando si fermavano a
suonare ad una porta in attesa di ricevere
qualche golosità.
Martino
avrebbe dato chissà cosa, almeno in passato, per essere con loro, per
essere uno di loro. A raccogliere caramelle, o cioccolata, o canditi, per
poi ritornarsene a casa ed assaporare l’euforia che segue la
fruttuosa scorribanda della vigilia di Ognissanti.
Ma lui non si era mai travestito, né truccato da mostro; né mai del resto
lo avevano invitato, o cercato... Sua madre non glielo avrebbe permesso, comunque.
Sua
madre...
Entrò
nella stanza proprio nel momento in cui stava pensando a lei. Martino
rimase immobile ascoltando il cigolio della porta, alle sue spalle, che
si apriva piano per poi richiudersi con quello scatto pigro che avrebbe
saputo riconoscere fra mille. I passi leggeri, un po’ strascicati,
attraversarono la penombra polverosa, stantia, per avvicinarsi a lui,
accanto alla finestra.
La
donna non disse una parola. Solo, posò una mano sulla spalla del figlio e
rimase imbambolata a contemplare l’agonia del giorno rifulgere
oltre il proprio volto riflesso nel vetro. Che
occhi terribili, aveva...
Martino
aveva sempre pensato che quelli fossero gli occhi più cattivi del mondo. Ma con il trascorrere degli anni aveva capito che
erano solo occhi dolenti, lontani. Il suo era lo sguardo di una persona
estranea, di una persona sbagliata. Era malata, nella testa. Come lui lo
era nel corpo. E l’esistenza di entrambi era da sempre stata un sonnolento
stillicidio di ansie, di solitudini, e soprattutto
di silenzi. Sua madre... Non aveva mai accettato
l’aiuto di nessuno. Sarebbe stato un affronto. Si bastavano a
vicenda, loro due. Nella sua testa ovattata di disperazione non
c’era mai stato spazio per altro che per sé stessa e per il povero
figlio incapace da tenere sempre accanto, sempre protetto, sempre
prigioniero. Tutto per amore, naturalmente. Povera mamma...
Uno
stormo di risatine stridule, infantili, si levò da qualche parte,
veleggiando nel vento tiepido. La fiamma della candela si contorse,
piegandosi sotto il gravame di pensieri di cui la stanza di Martino era ormai satura. Era l’ultima sera di ottobre. Ed anche la prima
di una nuova vita, per lui. Era stato più facile del previsto, tutto sommato. Temeva che sua madre non lo avrebbe
accontentato. Invece, tra lacrime e sospiri e preghiere biascicate ad
invocare il perdono di chissà quale dio nascosto fra le pieghe della sua
misera mente, aveva fatto tutto quanto lui le aveva chiesto.
“Vedrai,
mamma”, le aveva detto. “Mi darai la
soddisfazione più grande del mondo. E tutti quelli là fuori, tutti quelli
che ci vogliono male, non rideranno più di
noi...”
E
così il giorno si era accartocciato, a poco a poco, su sé stesso, come
una pagina ricoperta di folli scarabocchi rossi accanto al fuoco. Piano, ora dopo ora, le ombre si erano insinuate,
timorose, all’interno della casa, a contemplare l’opera di
madre e figlio, entrambi smarriti senza speranza tra le ragnatele di un
lamentoso silenzio.
Ti ringrazio, mamma, pensò Martino. Era una strana rivincita, quella, nei
confronti di tutti gli amici che non aveva mai avuto, nei confronti di
una vita che non aveva proprio più senso, se mai ne aveva
avuto uno. Forse le ombre che gozzovigliavano senza rispetto nel cervello
di sua madre avevano contagiato pure lui, col
tempo. Non ci sarebbe stato da meravigliarsene. E
del resto, non gli importava affatto. Sentiva che era stata una scelta
giusta.
I
piccoli mostri arrivarono schiamazzando in un gruppetto sparuto; ma non
appena si trovarono sotto la casa di Martino d’istinto abbassarono
la voce, scrutando la porta d’ingresso con occhietti cerchiati di
nero o infossati dietro mascheroni di cartapesta. Martino sapeva che
avrebbero voluto suonare il campanello, ma erano combattuti dalla paura.
Paura di sua madre. L’avevano sempre chiamata “la
matta”, senza mezzi termini. Ma lui aveva
smesso di prendersela per quello. Probabilmente si sarebbe comportato
allo stesso modo, se fosse stato uno di loro.
Però non lo era mai stato, uno di loro, né mai lo sarebbe diventato.
Non c’era più modo di tornare indietro. Ora lui si trovava, e per
sempre, dalla parte della notte. Osservò quei ragazzini con disprezzo,
stemperato appena da una punta di compassione.
Sua
madre si ritirò nell’ombra, muta, un istante
prima che i mostriciattoli sollevassero gli sguardi verso quella
finestra. Martino la sentì portarsi le mani al volto, sforzandosi per
soffocare i singulti.
Non ti preoccupare, mamma, avrebbe voluto dirle. Io sto bene, adesso. Non sono
mai stato più felice di così. Ma non poteva
ormai più dire una parola.
I
piedi di sua madre urtarono, indietreggiando, il grosso cucchiaio lordo
che giaceva sul pavimento, semicoperto dalla poltiglia rossa e grigiastra
sparsa sulla polvere. Il rumore, viscido e metallico, rimbalzò da una
parete all’altra, come il rintocco di un campanaccio arrugginito. Anche la seghetta, persa nel buio, non doveva essere
lontana.
Non ti preoccupare, mamma. Ho voluto io che tu
lo facessi. E te ne sono
grato.
E
quando i ragazzini lo videro, finalmente, cominciarono ad urlare.
La
fiammella, dentro la testa svuotata di Martino, si dimenò
all’improvviso, quasi gli strilli l’avessero raggiunta dalla
strada. Attraverso le orbite cave la luce
ondeggiò ancora un poco, generando due flebili fasci inquieti lanciati a
scandagliare la notte. Martino si sentì scuotere da un brivido di esultanza.
Sua
madre, adesso, rideva e piangeva. Presto sarebbe arrivata gente, certo, e
avrebbero portato via entrambi. Non importava.
Martino sarebbe rimasto comunque in quella casa,
per sempre, inevitabilmente. Nelle coscienze di quei ragazzini in fuga
lui era ormai entrato a forza come il più terribile degli incubi, quelli
che non si possono dimenticare. La sua immagine, seduta a quella finestra,
il cranio scoperchiato e la candela accesa immersa nella testa scavata
come una zucca, con la sua pazzesca luce a baluginare là dove avrebbero
dovuto esserci gli occhi, non si sarebbe mai più cancellata dalle loro
anime.
Mamma
era stata perfetta: mai avrebbe avuto occasione di compiere un gesto più
grandioso, memorabile e pietoso in tutta la sua esistenza. Qualunque cosa
le fosse accaduta, poi, non avrebbe avuto alcun significato.
Alcune
foglie morte, simili a mani tronche ed avvizzite, schiaffeggiarono il
vetro, quasi a voler scacciare quella follia annidata nella stanza,
affacciata malignamente alla finestra. E Martino seppe di appartenere già
alla notte, a quella notte, spauracchio eterno e
maledetto, per sempre vivente, fulgido e tremendo.
Tre,
quattro, cinque porte si spalancarono lungo la via, e persone
dall’aria confusa e allarmata risposero agli strilli dei bambini.
Tutti guardarono in direzione della “casa dei matti”, come era conosciuta, e presero ad avvicinarsi
correndo, pronti ad invitare l’Orrore ad avvelenare per tutta la
vita i loro sogni.
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